13. apr, 2022

VOLONTARIATO: Un’occasione o un’opportunità?

In ogni essere umano esistono due tipi di limitazioni: corporee e sensoriali. Quelle visibili possono essere il non vedere, poter camminare, possedere una voce non molto chiara e via dicendo; quelle sensoriale o emotive: il sentirsi inutile, la paura di sbagliare, difficoltà nel saper comunicare, la timidezza e così via. Tutto questo ci porta alla constatazione che per ogni essere umano, al di là della sua condizione economica, sociale o fisica, nel senso d’agilità motoria e quant’altro, ha in sé una necessità che lo accomuna agli altri che sta nel bisogno di considerazione, rispetto, amicizia, solidarietà e amore, non solo per se stesso.

Il ciò, ci conduce a dover dire con molta obiettività che se pur vero che una disabilità grave nei movimenti o mancanza della vista, udito o altro, non esiste persona tanto autonoma o autosufficiente da poter eliminare, in sé, il suo bisogno di considerazione, di amicizia, di solidarietà e, principalmente, d'amore, soprattutto in quei burrascosi momenti in cui anche la più semplice speranza, si è frantumata o finita nel nulla. Chi ritiene di non aver bisogno degli altri, forse è troppo convinto di bastare a un Io che ha smarrito il proprio Sé.

È proprio la credenza o presunzione del credere di essere tanto autonomi o autosufficienti da bastare a se stessi che ci conduce a giudicare i cosiddetti bisognosi come i poveri, i disabili, gli emigrati o una qualsiasi altra persona in difficoltà esistenziale come bisognosi d'assistenza, d'affetto o di chi sa di quale cosa gratificante o miracolosa, a renderci inconsapevoli che il bene non si dona, ma va costruito insieme. Non serve a nulla far del bene, se prima non impariamo ad accogliere e considerare l’altro come un se stesso. Gli altri non siamo noi, ma il senso o valore del Noi negli altri, può realizzarsi o concretizzarsi esclusivamente se riusciamo a tramutarci da semplici benefattori in accoglienza dell’altro, poiché solo in tal senso, ci tramuteremo in valorizzatori dell’essere emotivo di chi ci circonda o ha necessità di ritrovare se stesso e con esso, il significato del suo esistere.

L’interazione o interagire con gli altri, è una delle necessità essenziali per la crescita e la costruzione emotiva di ognuno di noi e con ciò, dovremmo cercare di non confondere il nostro donarci al prossimo o coloro che ci circondano con l’opportunità del fare del bene, poiché solo in tal modo, riusciremo a indirizzare ogni nostra azione verso il benessere comune che è l’opposto al ‘Mi fa star bene’.

Per raggiungere quest’obiettivo, è necessario comprendere che non si può essere accoglienza dell’altro, senza ascolto che è diverso dal semplice sentire, dato che il primo è rivolto verso chi ci parla e il secondo, sul ciò che si prova. Realtà questa che nella sua complessità non è di facile realizzazione, soprattutto se ci facciamo condizionare da un’immagine fisica, etnia oggettiva della persona, stato economico e via dicendo. Solo se continueremo a farci condizionare dall'immagine che si trova a vivere un singolo soggetto, rimarremo inconsapevoli di comprendere che come persona si nasce, limiti si possiedono. Limiti che se da una parte sono soggetti a una lentezza o inabilita nei movimenti, mancanza della vista o dell'udito, dall’altra possono far credere a colui che riceve conforto o sostegno pratico, non solo la paura di essere accettato passivamente, ma principalmente accrescere il cosiddetto 'complesso d'inferiorità' che col passar del tempo può tramutarsi in un pesante e atroce senso di solitudine interiore.

L’opportunità del fare del bene, ci può condurre e non sempre in modo volontario a un assistenzialismo momentaneo che trova la sua concretezza nel momento in cui si compie una determinata azione nei confronti degli altri, soprattutto se essa è finalizzata a farci stare in pace con noi stessi o con la propria coscienza. L’occasione invece, poiché deve essere creata ed è sinonimo di congiuntura, ci aiuta a creare i presupposti, non solo di comprendere meglio i bisogni di un colui che ha necessità del nostro sostegno o compartecipazione che è la base principale per poter trasformare un assistenzialismo fine a se stesso in conoscenza effettiva di poterci confrontare con gli altri e con la nostra realtà di soggetti bisognosi di considerazione, d'amore e di solidarietà umana.

Ecco perché è di fondamentale importanza il saper distinguere l’opportunità dall’occasione, quando desideriamo donarci agli altri. Nell’affrontare i bisogni di comunicazione o le turbolenze altrui, credendo di voler il loro bene, attraverso un atteggiamento che si limita al ben dire, oltretutto con un perfetto linguaggio che si confonde tra compartecipazione attiva del rapporto interpersonale e falsa solidarietà circostanziale, è semplicemente destinato a condurre ogni nostra azione, anche quella che può sembrare la più umana possibile, a lasciar dietro di sé il tempo che trova. Questo è opportunismo traversale che mira a salvaguardare l’immagine bonaria di un io benevolo, il quale non ha nulla a che vedere con il desiderare il bene dell’altro. È sostanzialmente un atto d’ipocrisia benevola verso se stessi e a favore del nostro simbolismo dell’apparire, tollerare e commiserare, piuttosto che comprendere un colui che desidera solo essere un semplice se stesso. È più facile apparire accomodanti o benefattori dinnanzi a una tribolazione umana, piuttosto che soffermarci e riflettere per poi, saper collaborare con il nostro e l’altrui bisogno comunicativo e solidale.

A tal proposito, a che serve possedere un buon udito se poi, il nostro comportamento si rileva come un semplice atto benevolo nei confronti di un colui che attraverso un proprio sentire e provare, era alla ricerca solo di un po’ d’amicizia e non di benevola compassione?

Detto questo, non ci resta altro che domandarci: che senso ha saper camminare se non sappiamo dove andare, che serve saper parlare bene se non sappiamo cosa dire o comunicare tra noi, oppure possedere una buona vista se non abbiamo cognizione di ciò che vediamo?

Come, infatti, non serve a nulla rispettare, aiutare o essere sostegno al prossimo, se la propria azione è rivolta unicamente verso qualcuno che ai nostri occhi, appare come un dissimile e con ciò, un soggetto semplicemente d’assistere o consolare e questo succede con molta facilità e frequenza. Sì, è vero, in alcuni momenti, è più semplice consolare per obblighi morali, piuttosto del prendere effettiva coscienza, che sotto l’aspetto del sostegno morale e affettivo, siamo tutti sullo stesso piano. Anzi, nessuno di noi, vorrebbe o desidera essere oggetto di commiserazione da parte degli altri, almeno che non sia lui stesso a usare il suo stato pratico ed emotivo come mezzo di autocommiserazione e opportunismo.

Tante volte, proprio a causa della nostra volontà o desiderio di fare del bene, ci dimentichiamo che per essere veramente sostegno agli altri, non solo in senso pratico, li dobbiamo considerare come soggetti pensanti con una loro dignità, se non vogliamo che la propria azione, rimanga o si riveli come un atteggiamento di gratuito buonismo. Anche il bene più grande che possiamo o desideriamo dare agli altri, diventerebbe un niente, se non parte da una autentica accoglienza che può nascere solo attraverso il reciproco ascolto. Solo chi dona senza conoscere è destinato a rimanere un mendicante della propria benevolenza, anche perché non possiamo dire o sostenere di rispettare gli altri, se rimaniamo incapaci di vederli come soggetti pensanti e originariamente singolari nel loro essere persona. Il vero rispetto reciproco, è qualcosa che si concretizza esclusivamente attraverso un sincero ascolto da entrambi le parti. Al contrario, chi crede di rispettare in conformità a una condizione o situazione altrui, creando benevolenza tramite un vocabolario di parolaia circostanziale momentanea, è solo interessato a salvaguardare il suo buonismo di buon samaritano, sperando che l’altro, con il passar del tempo, si auto consoli e possa acquisire la propria pace sensoriale.

Il bene o meglio, il benessere comune, non si può creare solo tramite la nostra buona volontà di saper donare assistenza o praticità nell’affrontare un ostacolo di qualsiasi genere, ma dalla nostra capacità d’accettare l'altro, offrendogli la possibilità di potersi sentire compartecipe al nostro mondo interiore, attraverso una considerazione attiva che non gli dia la minima sensazione di sentirsi un dissimile da noi, ma un essere che con la sua diversità, completa il nostro essere in comunione con l'eterogeneità umana e tramite essa, concretizzare i suoi obiettivi vitali o esistenziali.

Ecco il vero motivo del perché il nostro rapportarsi o meglio, donarsi agli altri che oggi è descritto col termine ‘Volontariato’, non deve basarsi sull''opportunità del fare, ma viceversa, dovrebbe essere un’occasione per conoscere e conoscersi, attraverso l’ascolto reciproco e l’auto-ascoltarsi per creare, non il bene ma il benessere comune, poiché se il primo ci disuguaglia un con l’altro, il secondo c’identifica come delle semplici persone con doveri e diritti, anziché dividerci o identificarci come bisognosi e volontari, ammalati e curatori, poveri e benefattori.

Quello che facciamo per noi stessi, muore con noi, quello che facciamo in collaborazione con gli altri vive in eterno, poiché, eterno è il bisogno di considerazione che abbiamo un con l'altro che non può consolidarsi con un frivolo rispetto circostanziale od occasionale.

Sì. Spingere una carrozzina è molto facile e semplice, ma comprendere colui che è sopra, significa vederlo e considerarlo nella sua totale spiritualità e moralità. Significa, non volere il suo bene, ma costruire insieme con lui, il benessere comune che si realizza, attraverso il nostro ascolto, che sta nel non tramutarci in sue gambe o braccia. Questo è semplice ‘Volontarismo’, non benessere comune. Assistenzialismo benevolo che, se anche sostiene l’altro e lo rende libero nel suo muoversi per soddisfare i suoi bisogni, impoverisce a chi dona il suo tempo di crescere sensitivamente e non solo.

Essere disponibili all’accoglienza dell’altro, significa, ascolto, confronto, compartecipazione che sono l’opposto di assistenzialismo che vuol dire, non renderlo importante dinanzi ai nostri occhi, ma guidarlo verso l’effettiva valutazione di se stesso. Significa non aiutarlo o assisterlo, ma collaborare con lui; non consolarlo ma ascoltarlo. Soltanto comprendendo e realizzando questo, potremmo capire che come inabilità fisica o motoria, non è sinonimo di anormalità, ma sostanzialmente di originalità del proprio essere persona e come tale, disuguale ma non dissimile, giacché è più facile vedere un paio di gambe non funzionanti che comprendere che nessun cammino vitale può essere affrontato da soli peggio ancora, con futili consigli di chi non ha mai provato.

Il benessere degli o per gli altri, come può rischiare di lasciar dietro il sé il tempo che trova, non si crea, si costruisce insieme, e solo chi cerca di realizzare il bene comune, sa ascoltare e soprattutto, non vuol essere chiamato volontario, poiché desidera esclusivamente essere considerato una persona desiderosa di convivere con i suoi simili.

Ogni persona umana non ha bisogno della volontarietà dell’altro per essere sostenuto, ma di stima, di convivenza e compartecipazione alla vita sociale. Il rispetto, il bene, l’amore che noi proviamo o cerchiamo di donare, non sono e possono trasformarsi in traguardi d’azioni bonarie, ma dovrebbero essere o divenire un cammino conviviale con e verso noi stessi, in primo luogo e poi, con il prossimo.

In parole semplici: se il Noi tessi non si tramuta in comunicabilità e di conseguenza, compartecipazione verso altri Se stessi, si rimarrà inconsapevoli del fatto che solo colui che si limita di donare, fermandosi all’azione benevola, rimarrà chiuso nei propri tabù e pregiudizi. Solo colui che riuscirà a non confondere la disuguaglianza dalla dissimilazione, diverrà certo che prima spingere una carrozzina, bisognerebbe imparare a camminare insieme.